la Festa che non c'è

Il professore non portava di scuro, teneva in mano un comando elettrico e attendeva che si spegnessero le luci in sala.
La Commissione, ovvero la Giuria si muoveva facendo scricchiolare le sedie provate dal peso un po’ eccessivo. In quell’aula non si vedeva da tempo un gruppo simile né una situazione siffatta. Fino all’ultimo il collega più anziano del Professore aveva chiesto “perché?. Perché questa cerimonia strana, al limite dell’illegale, in una Università così cambiata da quei tempi! Eppoi non sarà che noi si debba anche applaudire, alla fine? E le domande su che le potremo fare, su quale aspetto del tema , e con quale e su quale linguaggio?”
Il Professore lo aveva lasciato dire, anche questa volta e poi, senza voler dare tanta importanza all’avvenimento aveva chiuso un po’ bruscamente “La domanda è arrivata secondo le procedure solite, abbiamo letto lo Statuto e il Regolamento. Anche le leggi più recenti e i Decreti ultimi non dicono nulla in proposito, l’importante è che si riesca a comprendere se il candidato ha approfondito, se ha colto il significato più profondo dei fatti trattati. Se l’approccio epistemologico è corretto il mezzo utilizzato rimane a scelta del candidato.”
Ora era lui che teneva la mano sull’interruttore in attesa di fare buio, ancora pochi istanti e poi si sarebbe tolto anche lui la sua piccola soddisfazione.
L’Università era vecchia, molto più vecchia di quella dove lui aveva studiato tanti anni prima. Lui la conosceva bene. Conosceva le aule piene di fumo e di discorsi, gli uffici e gli studi dei professori dove si erano sdraiati nelle notti fredde di febbraio dentro i sacchi a pelo in attesa di ricominciare a organizzarsi dalla mattina dopo. L’Università il Professore la conosceva bene anche perché lui aveva avuto la ventura di studiarla, come fosse essa stessa una corpo, un fenomeno, un oggetto animato. Per tre anni aveva seguito con occhi attoniti lo svolgersi del rito della riunione quindicinale del Nucleo nella piccola sala del senatino. Aveva colto e non aveva colto. C’era chi parlava di cose troppo note a tutti loro per diventare oggetto, altro da sé.
Adesso con le luci abbassate e senza alcuna premessa dallo schermo appare, in uno spazio lasciato dalle musiche e dalle frasi lanciate in corsa da uno scooter, la scritta, fatta  a mano e poi trasferita in digitale, “questo saggio, questo corto, è la mia tesi di laurea. Questa mia tesi di laurea è un saggio che nasce da lontano...”
Nella penombra della sala adesso le facce sono macchie chiare e gli occhiali riflettono le immagini dello schermo.
Il Professore approfitta della tenda nera che garantisce il buio ed esce di soppiatto.

Quando ritorna ha in mano una bottiglia del 1982. Lui sa che  non si è trattato di una grandissima annata, di quelle da ricordare  e che potrebbe anche essere che il corpo del rosso non abbia tenuto, nonostante il buio e la cantina. Sa anche che il 1982 è stato, per altro verso, una annata da ricordare e quella bottiglia adesso verrà stappata, appena  la porta si aprirà per fare uscire gli amici e i parenti  con gli occhi lucidi. Che la festa incominci.

                             Franco Frigo

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